Il presupposto è che “i Maestri servono.”
La frase contiene il senso del nostro bisogno di un Maestro.
Siamo così convinti che i Maestri siano indispensabili, che il più delle volte la maggioranza delle persone, diventano
“dipendenti dai Maestri”.
Ogni discepolo, e mi riferisco in particolare al mondo
buddhista, dove il Maestro è detto “indispensabile”, ritiene, a torto o a
ragione, che il proprio Maestro sia sicuramente un Illuminato, e che come lui
ve ne possono essere altri, ma il proprio è davvero particolare.
Così si apprendono i fondamenti delle pratiche meditative,
le visualizzazioni, la recita corretta dei Mantra, la recita corretta della
Pujia, e si esegue il tutto, più o meno, così come deve essere fatto.
Si diventa così dipendenti che ci si è dimenticati
totalmente di rispondere alle domande che ci hanno portati a cercarli, ad
incontrarli, ad affidarci a loro.
Prendiamo per eccellenti le varie pratiche che ci danno ed
iniziamo a seguirle calandoci in una specie di pozzo senza fondo, infinito,
senza capire se questo pozzo ha il fondo in basso o in alto.
Le nostre domande, le domande della nostra coscienza, quelle
che ci hanno portati a cercarli, sono scomparse. Come se questo incontro le
avesse totalmente cancellate.
Ma non è così.
Le domande ci sono ancora. Abbiamo soltanto cessato di
pensarle, le abbiamo messe da una parte.
Chi sono io?
Dove vado?
Da dove vengo?
Cosa ci faccio qui, in questo mondo?
I Maestri ci dicono di fare le pratiche, di praticare, di
meditare. Troveremo la risposta nei metodi e nelle tecniche che ci vengono
insegnate.
E allora continuiamo a dare fiducia al Maestro.
E continuiamo ad allontanarci da noi stessi. Deleghiamo.
Deleghiamo ancora una volta la possibilità di diventare Oltre al nostro
Maestro.
Ma non si riesce a cogliere questo senso. E’ nascosto dalla
paura di fallire.
Questa insicurezza è ciò che ci impedisce di essere noi
stessi. E i Maestri, bravi quanto vuoi, non hanno mezzi per impedirci di essere
ciò che non siamo.
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